Parla don Biagio Amata, decano del
Pontificium Institutum Altioris Latinitatis
Se almeno il Canone fosse rimasto in latino…
di Lorenzo Cappelletti
Don Biagio Amata è l’attuale
decano del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis fondato con motu proprio
da Paolo VI nel 1964 in attuazione dell’esplicito mandato della costituzione Veterum
sapientia. È al suo terzo anno di reggenza, dopo aver preso il posto di don
Enrico dal Covolo, ora vicerettore della Pontificia Università Salesiana (UPS).
Insieme hanno programmato la celebrazione del quarantennale della Veterum
sapientia il 22 febbraio presso la medesima Università. Anche perché,
scriveva don Biagio sull’Osservatore Romano nel luglio 2000 ricordando
questo atto del pontificato di Giovanni XXIII, la Veterum sapientia «non
si trova nemmeno indicizzata nella maggior parte delle pubblicazioni edite in
occasione della prossima beatificazione [di Giovanni XXIII] né nel dvd
multimediale tempestivamente messo in commercio; ed è pressoché assente anche
nei siti internet a soggetto religioso cattolico», suonando «quasi offesa alla
memoria di Giovanni XXIII così attento a coniugare tradizione e innovazione».
Ha pronte le dimissioni se non verrà presto un
gesto significativo inteso al rilancio dell’Istituto da parte della Santa Sede
che ne mantiene l’alto patronato. Parla schietto. È un siciliano simpatico, ne
ho conosciuti altri.
Perché l’Istituto che lei dirige fu affidato ai
Salesiani?
DON BIAGIO AMATA: L’Istituto fu assegnato alla
Società Salesiana perché tradizionalmente in essa c’era stato un culto del
latino, consacrato anche nelle regole: l’amore per il latino veniva ritenuto un
segno specifico di vocazione. Don Bosco era stato il primo a dar vita a una
collana scolastica di antichi scrittori cristiani. Questo fu il motivo per cui,
con grande sacrificio e superando opposizioni interne, l’allora superiore
maggiore non esitò a dire di sì all’invito della Santa Sede. Tanto più che un
articolo del nostro don Gallizia, nel 1959, faceva intravedere la necessità
della fondazione di un grande Istituto di livello universitario per lo studio
della lingua latina. Bisogna dire anche che altri grandi ordini interpellati
rifiutarono.
La débâcle del latino era già in atto
nella Chiesa?
DON AMATA: Nei seminari c’era stato un crollo
dell’insegnamento del latino. Crollo che divenne poi vuoto dopo la riforma
scolastica in Italia (la Veterum sapientia cade proprio nell’anno della
riforma della scuola media inferiore in Italia: 1962), una disgregazione a cui
gli uomini di Chiesa non erano preparati; mai avrebbero immaginato un
sovvertimento di quelle che erano le loro certezze e neanche un cambiamento
nella politica italiana: erano convinti che tutto restasse nello statu quo
ante. Pensavano che la riforma Misasi durasse qualche anno. È durata
quarant’anni! Ma quell’atto di forza fu fatto anche per tappare la bocca a
quanti volevano un adattamento della liturgia. E questo fu l’errore grave. In
fondo l’intuizione del movimento liturgico era semplicemente di rendere
comprensibili al popolo le parti della liturgia della Parola.
Poi si è andati molto oltre quella
intuizione.
DON AMATA: Sì, finirono per prevalere certi
fanatismi, le istanze avveniristiche e avventuristiche, nonostante le posizioni
moderate del Concilio, obbligando Paolo VI a togliere la lingua latina anche
dal Canone. I padri erano equilibratissimi, accettarono le istanze del
movimento innovatore ma anche le istanze in favore dell’unità del rito, in modo
che non ci si sentisse estranei da una nazione all’altra. La contestazione dei
lefebvriani non solo della riforma liturgica ma anche dell’aspetto pastorale e
di fede del Vaticano II irrigidì le posizioni. Non so se si possa dire, ma
Paolo VI non ebbe dei validi e degli intelligenti collaboratori. Il movimento
lefebvriano poteva essere contenuto. Invece di imporre subito la riforma si
potevano usare le nuove formule per un periodo di venti, venticinque anni ad
experimentum. Potevano crearsi dei momenti di urto, di difficoltà, certo.
Fatto sta che la Chiesa ha dovuto poi subire lo scisma lefebvriano. Si dice che
altrimenti sarebbe stato peggio. Bisogna vedere.
Una più scrupolosa custodia del latino
liturgico non avrebbe raggiunto lo scopo meglio della Veterum sapientia,
favorendo indirettamente, per lo stupore di fronte alla bellezza di canti e
preghiere, anche una volontà di apprendimento e di approfondimento?
DON AMATA: Ricordo come fosse oggi che, quando
venne introdotto da Paolo VI l’uso della lingua nazionale anche nel Canone, due
docenti che mi affiancavano (io ero preside allora) dissero chiaramente: questa
è la morte del latino nella Chiesa. Si rivelarono profetici. Non essendoci più
nessuna preghiera in latino, che interesse c’è a celebrare in latino, e che
motivo c’è di fare questo tipo di studi? Bisogna dire che la risonanza del
latino era anche formatrice, la risonanza di certe preghiere, di certi salmi
era, diciamo così, fortemente impegnativa per la propria vita ascetica,
spirituale, morale. Ora improvvisamente sono cadute dalla memoria della Chiesa,
non solo dei singoli sacerdoti. Questo è un impoverimento troppo grande, ecco
perché mi sto impegnando, per obbedienza al carisma della Società Salesiana,
certo, ma anche perché in prima persona vedo che è una grande perdita umana,
una grande perdita ecclesiale, la totale scomparsa del latino. Sacerdoti che
non sanno leggere neanche le lapidi che hanno nelle loro chiese, sacerdoti che
non conoscono neanche l’abc del breviario perché, fatto nella forma in cui è
stato fatto (salmi da un lato, antifone dall’altro, le letture da un altro
ancora. Non parliamo poi della liturgia delle ore nel tempo di Avvento e del
periodo di Natale che è veramente...), dà l’impressione che la preghiera sia
una cosa complicata. Guai a parlarne così ai liturgisti, eppure loro sono stati
la causa di questa perdita: invece di rendere semplice la preghiera propria del
popolo di Dio... Non si è capito l’animus, l’intenzione di allora (credo, o
forse sono io a non aver capito...): nelle discussioni preparatorie si voleva
che quella preghiera fosse la preghiera della Chiesa e quindi doveva essere
alla portata di tutti. E invece, in questa maniera diventa sempre più una
preghiera artificiosa. Cose che io ho scritto. Ma nessuno parla, perché se per
caso uno si muove, ci sono cinquanta liturgisti che fanno i dottori della Legge
dall’altra parte.
Ritorniamo alla Veterum sapientia.
Ebbe di fatto attuazione quella costituzione. Per quanto tempo effettivamente
si insegnò in latino?
DON AMATA: Non sono uno storico e dunque non
sono competente a rispondere, ma obbiettivamente i docenti non erano preparati
a fare scuola in latino. Quindi ci furono minacce di dimissioni in massa e le
università, compresa la Gregoriana, rischiarono di trovarsi sguarnite
improvvisamente. Nelle altre nazioni fu un disastro totale: le proteste dei
vescovi furono di tale ampiezza (questo si è sempre negato ufficialmente) che
obbligarono la Congregazione a soprassedere, a far finta di niente. Anche il
nostro Istituto, per il quale si prevedeva un enorme afflusso, il primo anno
ebbe sì e no 64 iscritti, una cifra irrisoria, e gli anni successivi cifre ancora
inferiori, fino al divieto del superiore nel 1972 di accettare iscrizioni. Una
dichiarazione di morte. Ma anche dopo si è vivacchiato. C’è bisogno di un forte
ripensamento, di un gesto significativo da parte della Santa Sede perché questo
Istituto, che è stato fondato da Paolo VI e di cui la Società Salesiana da
quarant’anni si è accollata l’onere, ha avuto una impalcatura accademica che
già allora non era adeguata alla situazione. Si supponeva che all’Istituto
venissero sacerdoti che già avevano fatto gli studi teologici, si supponeva che
avessero fatto gli studi classici: supposizioni che non corrispondevano e non
corrispondono più alla realtà. È mancato il controllo della Santa Sede. Dopo
30-40 anni bisogna verificare che sia raggiunta la finalità per cui un Istituto
è stato fondato! Mi si è detto: vai avanti, tranquillo, nella santa Chiesa
anche cento anni può andare avanti qualcosa senza... Ma ci sono delle vite
umane di mezzo!
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Delle ragioni che
presiedevano alla Veterum sapientia sembra che la Sapientia
christiana, il documento dell’aprile 1979 che disciplina attualmente gli
studi ecclesiastici, abbia ritenuto solo la necessità di uno studio del latino
(senza peraltro specificarne le modalità: «Nelle facoltà di Scienze sacre è
richiesta una congrua conoscenza della lingua latina affinché gli studenti
possano comprendere e usare le fonti di tali scienze e i documenti della
Chiesa») per accedere alle fonti e ai documenti della Chiesa. Come in concreto
viene attuata questa disposizione per quel che è la sua esperienza?
DON AMATA: Quel documento non recepisce la Veterum
sapientia, non poteva recepirla per la mutata situazione. C’era stato il
’68, c’era il grande abbandono dello stato clericale: oggi nessuno se lo
ricorda, ma centinaia, migliaia di sacerdoti hanno lasciato il sacerdozio e la
Chiesa cattolica. L’intenzione del legislatore, magari, era dire che ci voleva una
buona conoscenza della lingua latina; nelle intenzioni degli avversari
quella dizione significa una qualche conoscenza della lingua latina,
perché ci sono le traduzioni, si dice, e si può accedere ai testi mediante esse
(ma la traduzione assolutizza, la traduzione in italiano non fa che vertere il
testo in quella parte che si vuole risulti predominante). Ma c’è un’altra cosa
da dire sugli studi ecclesiastici.
Dica.
DON AMATA: Qual è il concetto su cui sono
costruite le facoltà teologiche e tutte le università pontificie che hanno come
struttura la facoltà teologica? Che il sacerdote sappia di tutto, soprattutto
le verità più contestate, per cui ci sono trattati e esami a sé stanti: ma
questa parcellizzazione svilisce il tipo di studio di una materia. Avendo
immesso nel 1971 l’Istituto all’interno del Pontificio Ateneo (poi Università)
Salesiano come facoltà alla pari con le altre facoltà (noi ci chiamiamo
indifferentemente Pontificium Institutum Altioris Latinitatis e Facultas
Litterarum Christianarum et Classicarum o anche con entrambi i nomi...), si è arrivati
a far assumere questo stesso carattere a un Istituto che avrebbe invece bisogno
che si insegnasse, ad esempio, grammatica latina e greca per tutti i primi tre
anni, anzi per tutti e cinque gli anni, non solo il primo anno, in modo che
alla fine del quinto anno si conosca bene la grammatica latina e greca; e in
contemporanea le rispettive letterature. Ma questo va contro gli statuti
generali della Santa Sede. Basta così.